mercoledì 14 marzo 2012

Mecnavi: mai più?

La Mecnavi e la strage operaia

ANGELO FERRACUTI
13.03.2012
il manifesto
Il 13 marzo 1987 a
i cantieri navali di Ravenna 13 operai morirono asfissiati dalle esalazioni di acido cianidrico pro
vocate da un incendio a una nave che

trasportava gpl. 5 giorni fa l'ultima morte sul lavoro
Al porto di Ravenna, ai cantieri navali Mecnavi, di proprietà dei fratelli Arienti, il 13 marzo del 1987 morirono asfissiati tredici uomini per via delle esalazioni di acido cianidrico provocate da un incendio nelle stive della nave "Elisabetta Montanari", adibita al trasporto di gpl. Alcuni operai stavano ripulendo le stive ma sopra di loro altri tagliavano e saldavano le lamiere con la canna ossidrica, fu una scintilla di quest'ultima a provocare le fiamme. Quei picchettini si chiamavano Filippo Argnani, che aveva all'epoca quarant'anni, Marcello Cacciatori, di ventitré, Alessandro Centioni, ventuno, Gianni Cortini, diciannove anni, Massimo Foschi di ventisei, Marco Gaudenti, di appena diciotto anni, Domenico La Polla, venticinque anni, Mohamed Mosad ne aveva solo trentasei, il povero Vincenzo Padua, sessant'anni, stava per andare in pensione e si trovò lì per puro caso, chiamato all'ultimo momento, l'unico veramente in regola assunto dalla Mecnavi; e ancora Onofrio Piegari, ventinove anni, Massimo Romeo, ventiquattro, Antonio Sansovini, ventinove anni, ed infine Paolo Seconi anche lui di ventiquattro. Tredici lavoratori morti come topi, come tredici era il giorno di quel mese, tutti asfissiati nel ventre della balena metallica.
È un anno che vado da quelle parti. Penso di aver parlato con tutti i protagonisti di quella giornata maledetta: i vigili del fuoco che estrassero i cadaveri, i medici del 118, gli infermieri, gli operai sopravissuti, i famigliari delle vittime, e poi sindacalisti, imprenditori, quel cardinale Ersilio Tonini che nell'omelia paragonò i picchettini che strisciavano nel ventre delle navi, e che rimasero intrappolati nelle stive, ai ratti; e naturalmente ho intervistato anche molti cronisti locali, la memoria di ieri e di oggi, preziosissimi per le mie ricerche, come Carmelo Domini. Di lui non sapevo nulla, a parte gli articoli scritti sul porto che erano finiti tra le tante carte che affollavano allora il mio studio da quando avevo cominciato a scrivere il mio libro. Poi lo incontrai un pomeriggio nella piccola redazione del Corriere di Romagna, che sta in Viale De Gasperi. D'acchito aveva l'aria del ragazzo buono, viso pulito e occhi chiari, limpidi e intensi. Timido e serio mi parlò del suo lavoro, che non è facile in una cittadina di provincia governata dai poteri fermi, che sono le banche, le fondazioni, le aziende importanti, o le associazioni massoniche, che a Ravenna imperversano.
A bassa voce disse cose durissime: «Ravenna non è che vuole rimuovere certe cose, come la storia della Mecnavi, ma ricordarle a modo suo. C'è una memoria istituzionale e una memoria spontanea. E la memoria istituzionale è una memoria che secondo me è colpevolmente selettiva. Ricorda solo quello che vuole ricordare. Soprattutto lo ricorda sempre come lo vuole ricordare. E questa non so se sia una memoria che faccia bene o che faccia male, perché è una memoria che non ti fa mai crescere». Annuii mentre eravamo nella saletta delle riunioni dove ogni mattina si incontrano i giornalisti per costruire le pagine del giorno dopo, poi lo invitai a fare qualche esempio. Carmelo non ci pensò un attimo, svelto riprese a discorrere: «Quello della Mecnavi è uno di quegli incidenti che si possono ricordare, perché è un incidente dove hai i buoni e i cattivi. I buoni sono gli operai che sono morti, assunti in nero, mentre i cattivi sono gli Arienti, o uno di loro, se non ricordo male, il classico imprenditore della cantieristica che vuole fare a meno dei sindacati, in mezzo c'era questa area grigia di quelli che non sapevano, quelli che dicono dovevamo fare di più e ogni anno vogliono ricordare questo avvenimento tragico col solito striscione "Mai più", che è una immagine evocativa anche molto forte, tanto che ogni volta ripetono lo stesso mantra, la stessa liturgia. Politica, economica e anche sindacale.
Dicono non bisogna abbassare la guardia, non bisogna dimenticare, però intanto la gente continua a morire. Allora dico: se voi tanto avete fatto, e non bisogna abbassare la guardia, allora perché la gente continua a morire? Questo è andato avanti per diciannove anni, poi è successo qualcosa». Lui è il cugino di Luca Vertullo, morto mentre lavorava proprio al porto di Ravenna a 21 anni nel settembre del 2006, schiacciato dal rimorchio di un trattore dentro la stiva del traghetto Espresso Catania, vent'anni dopo la tragedia della Mecnavi.
Il rimorchio era sovraccarico e dentro quella stiva i portuali stavano compiendo una delle manovre più complesse, il rizzaggio, che consiste nel fissare i carichi. Cosa che i vecchi non vogliono più fare. Luca era con altri quattordici ragazzi forniti dall'agenzia interinale Intempo alla Compagnia portuale, tutta manodopera precaria. «Quel giorno arrivo in redazione e dovevo chiamare Luca perché eravamo stati in vacanza insieme una settimana prima. Volevo chiamarlo ma tutti i giorni rinviavo, oppure mi dimenticavo. Mentre ho in mano l'agenda e sto per comporre il numero sulla tastiera del cellulare, sento sulla radio scanner che c'è un codice rosso al porto, "persona ferita nel traghetto" dicevano. Tra me e me, come molti per ignoranza ho pensato: come ha fatto quel turista a cadere dal traghetto? Salgo sulla moto e corro al porto.
Ma quando sono arrivato non ci facevano entrare, c'era una nave transennata, e poi un gruppo di ragazzi che piangevano, uno lo conoscevo di vista. Allora il fotografo del Resto del Carlino mi disse: "Guarda ci sono i portuali incazzati come le pantere, non fanno entrare". Incredulo Carmelo gli chiese: "Scusa, ma cosa c'entrano i portuali?". E il fotografo rispose: "C'entrano, c'entrano, è morto uno di loro dentro, mentre scaricava un rimorchio". Lì capisce che era un altro tipo di incidente, non quello che si era immaginato, e cioè un turista imbranato che scivola e cade dal traghetto. Percepii che quella storia muoveva ancora in lui delle segrete corde emozionali. Il racconto si fece più cupo e malinconico, il tono di voce più basso. «Sapevo che era il primo giorno di lavoro di mio cugino» ricominciò, «ma non mi è venuto in mente di pensare a lui». Però c'erano questi ragazzi in lacrime, e allora forse cominciò a pensarci quasi a sua insaputa e gli venne l'ansia di chiedere: «Io sono un giornalista, non voglio farmi i cavoli vostri, ma voi sapete il nome di chi è morto?»
I ragazzi gli dissero di sì, certo che lo sapevano. «Visto che ho un cugino che lavora qui dentro potete soltanto dirmi come si chiama? No, dimmelo tu mi ha risposto uno di loro. Allora spiego: si chiama Luca Vertullo, e il ragazzo risponde: è tuo cugino, è lui il morto. Lì ho avuto una specie di vuoto. Più tardi mi ha chiamato una giornalista dell'Agi e mi ha chiesto nome e cognome, età, mi ricordavo benissimo quando era nato mio cugino. Poi ho aggiunto di mia volontà: era al suo primo giorno di lavoro. Penso che quel dettaglio lì è stato importante, forse senza quel dettaglio la storia non sarebbe venuta fuori» raccontò con consapevolezza il cronista avvezzo a combattere coi fatti. Tornando verso Ravenna sbagliò strada. «A un certo punto mi fermai, scesi dalla moto, presi il cellulare e chiamai mio padre, gli dissi quello che era successo», raccontò ancora prima di commuoversi.
Oggi forse non potrebbe più scrivere gli articoli che ha scritto in quei terribili giorni, ma allora c'era un direttore giovane come lui che lo aveva protetto. Per quello era riuscito a trattare la situazione del porto molto liberamente. Ricordo il titolo di uno di quei pezzi, pubblicato il 13 marzo del 2007, vent'anni esatti dopo la tragedia della Elisabetta Montanari: «Ma al porto si muore ancora. Non in nero, ma in affitto» e il sottotitolo a mio avviso impeccabile, «Come la legge Biagi ha "legalizzato" il caporalato».
Poi Carmelo scopre che il cda di Intempo, l'agenzia interinale delle Compagnie portuali, è composto principalmente di politici della sinistra più moderata e migliorista e di ex sindacalisti, come Mario Sommariva, ex segretario nazionale della Filt-Cgil, e consiglieri comunali, collaboratori di politici o presidenti di regione ulivisti, piccoli burocrati. «Una agenzia interinale, capisci? Poi quelli della Compagnia portuale hanno fatto pure un comunicato che dopo un percorso di formazione sono stati assunti 50 nuovi soci. Mi chiedo: perché uno diventa socio, e cioè portuale di serie A dopo tre anni, però il primo giorno lo mandi nella stiva di una nave? Non quaglia. Ma se queste cose non tornano a me che sono un inviato, come fanno a tornare a un ex sindacalista?»
Il 13 marzo 1987 Carmelo Domini era a scuola, frequentava le elementari, e quel venerdì era seduto sul suo banco quando a un certo punto la porta si aprì, ed entrò un portuale che era arrivato in classe per riprendersi suo figlio. «Disse alla maestra che erano morte tredici persone, o comunque che al porto era successa una disgrazia, e le raccontò che era corso a scuola e interrotto la lezione perché aveva sentito il bisogno di stringere il figlio». Bello, mi scappa da dire. «Sì, un bel ricordo, fu una cosa molto emozionante per tutti, ma la storia non è finita. Quel bambino vent'anni dopo era tra i dodici indagati per la morte di mio cugino».
L'ultimo a morire in quel porto cinque giorni fa è stato Daniele Morichini, 44 anni, schiacciato da un tubo metallico. Intanto Ravenna ricorda quella storia lontana. Il processo di primo grado condannò gli Arienti a 7 anni e mezzo, che nel '94 si videro ridotta la pena a soli 5 anni di reclusione, e ancora a 4 dalla Suprema Corte più tardi; una farsa, e i miseri risarcimenti arrivarono ai parenti delle vittime dopo vent'anni. Oggi vedremo ancora i gonfaloni in piazza, ascolteremo i discorsi molto solenni dei politici locali, i convegni pieni di buonismo istituzionale, assisteremo al monito indignato dei sindacati confederali, forse si terrà anche la messa in suffragio. «Tutto cambia affinché nulla cambi» diceva nel suo discorso Don Fabrizio, il principe di Salina del Gattopardo.

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